UN VENERDI’ SERA DI – VINO
di Igor Francescato

Qui siamo in tanti, oh quanti siamo! Una bella compagnia, un’enorme compagnia di “amici”.

È un po’ diverso da prima, anzi, è completamente diverso qui.

Ci divertiamo, scherziamo, disquisiamo su mille argomenti; ci alteriamo, qualcuno s’arrabbia anche bruscamente e s’abbroncia in un modo che non riesco a descrivere… anche se riuscissi a renderlo a parole non sareste in grado di immaginarlo.

Passano lente le giornate; sembrano, e forse sono, giornate infinite.

Concordiamo su una cosa, una cosa che mai sarà come prima; possiamo solo immaginare, ricordare con le facoltà di oggi, quello che ieri ritenevamo un condimento speciale, unico, un piacevole divertissement della vita.

Qualcuno di noi forse è qui per aver abusato oltre il sostenibile di tanto piacere, ma chi non si lascerebbe trasportare inebriato quando s’impregna il corpo e la mente vola?

A questa domanda, nessuno tutto intorno (e quando dico “tutto intorno” comprendo completamente ciò che mi è visibile: uno spazio incommensurabile, credetemi), noto che proprio nessuno accenna a sé stesso; sarebbe retorico asserirlo. Io per ora m’astengo.

Era un piccolo pub ai margini del paese, in campagna; ampie distese di terra coltivata tutt’attorno, una posizione tranquilla, dove si poteva parcheggiare con facilità, dato che un campo era destinato solo al posteggio.

Questo locale era famoso per l’alta qualità dei concerti dal vivo a cui dava spazio, uno spazio che la grande comunità trovava solo per la musica commerciale. Erano band jazz o blues sconosciute ai più, band piccole e dai nomi appena inventati e subito modificati per la transitorietà dei membri del gruppo; band animate e trascinate da grandi talenti, giovani che suonavano per qualche birra, solo per la gioia che dava loro l’arte della musica, una gioia vibrante di passione.

Eravamo venuti come al solito con la mia macchinina, perché, come al solito, avrei guidato io dopo la serata.

Io e il mio gruppetto di amici volevamo ascoltare lo straordinario trio jazz di cui conoscevo l’eccentrico pianista, passando una serata in spensieratezza e allegria.

L’ingresso era a consumazione, e non servirono molte canzoni per far guadagnare al gestore molto di più di quello che poteva incassare se avesse anche fatto pagare il biglietto.

Si susseguivano le canzoni del repertorio classico jazz degli anni Quaranta, mentre sul nostro tavolo si susseguivano: spumeggianti birre rosse, bionde e doppio malto delle migliori marche, uno strepitoso vino spumante della zona del Prosecco servito fresco come esige il vino bianco, un cabernet dell’85 che è finito in meno di un brano, un succo di frutta all’albicocca e un orzo lungo.

Eravamo inebriati dalla musica, dal fumo nostro e da quello del locale (questo a me inebriava ben poco, direi invece che mi infastidiva), dal godimento del palato, e piacevolmente accompagnati dalle nostre amichette, che nel frattempo ci avevo raggiunto e ora sedevano su di noi, si muovevano e contorcevano, battevano le mani, fumavano e bevevano assieme a noi: eravamo circondati dal piacere!

Al secondo bis ordinammo i digestivi: che c’era da digerire proprio non so’, ma il nostro umore ne guadagnò.

Finì da lì a poco il concerto, s’era fatto assai tardi e così eccitati uscimmo, dando un passaggio a Marta e Lucia, mentre Mario ed Andrea preferirono sapere, come dicono loro “come va a finire”.

Finimmo in cinque nella mia utilitaria che, così piccola, ci teneva ancora più caldi, stretti tra le braccia delle fanciulle e accalorati dai fumi dello spirito di – vino (ma non solo di quello).

Era venerdì sera, ed il traffico intenso lo confermava. Scie di fari luminosi rischiaravano le file di alberi ai margini della strada, macchine potenti sfrecciavano in senso contrario, mentre io tenevo strettamente la destra, come indica il codice della strada incrociando altri veicoli.

La musica all’interno dell’abitacolo era molto alta, musica rock i cui bassi profondi venivano amplificati dal mio poderoso impianto hi – fi di sei altoparlanti ad alto rendimento.

Gino, Stefano Lucia e Marta, agitandosi, cantando e urlando felici, con l’ansia di arrivare a casa il prima possibile per continuare a scambiarsi calde effusioni, mi incitavano a dare gas, a fare presto, a muovermi.

E l’acceleratore lo premetti, fino in fondo.

Quell’albero contro cui la metallizzata carrozzeria strappò la corteccia e divelse le radici, ora è stato estirpato, i fiori sono stati spostati su una piccola lapide ai piedi del platano vicino.

Quel mazzo di fiori variopinti che ricordano le nostre cinque giovani vite stroncate, ogni tanto, da quassù, mi viene da contemplarlo…

Io che ero stato astemio e odiavo il fumo, io che sono morto a 22 anni, che ne so io della vita?

Scritto nel 2005 come esercitazione scolastica, materia italiano (frequentavo l’Istituto Cine – TV Roberto Rossellini di Roma)

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