Igor Francescato Blog

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E’ STATO UNO STATO DI EMERGENZA – riflessioni sull’inizio della pandemia da Coronavirus in Italia

Oggi, primo aprile 2022, finisce ufficialmente in Italia lo Stato di emergenza sanitaria, introdotto dal Governo dal 31 gennaio 2020. Vorrei dedicare il breve saggio “PERCHÉ CI EMOZIONIAMO SOLO PER ALCUNE COSE?” (tratto dall’appendice di un libro che mi è capitato tra le mani poco tempo fa), a tutte le persone, care e sconosciute, che hanno vissuto sulla loro pelle (e nello spirito), le conseguenze della pandemia da COVID-19.

Questo scritto, di un giovane autore, è stato per me illuminante. E vorrei aiutarlo a risplendere.
NOTA IMPORTANTE: le riflessioni che seguono sono state scritte nei “mesi caldi dell’emergenza sanitaria”, nel primo semestre del 2020 e quindi sono ben lontane da quello che è seguito (vaccini e Green Pass, VAX e NO VAX, ecc. ecc.). Io l’ho solo letto, trascritto e ho cercato (e trovato in parte, spero senza errori) le fonti che l’autore cita.
Ben, avvicinatevi, ancora un pochino, dai! E bon ascolto o lettura.

PERCHÉ CI EMOZIONIAMO SOLO PER ALCUNE COSE?

di Francesco Schellino*

Ricordiamoci che ai nostri nonni fu ordinato di andare in guerra… A noi stanno chiedendo di stare seduti sul divano.

È questa una delle frasi che ha spopolato dall’inizio dell’epidemia sui social network.
E voglio legarla a doppio filo con la riflessione di Charles P
ercy Snow che recitava: «in nome dell’obbedienza sono stati commessi molti più crimini di quanti ne siano stati commessi in nome della ribellione» (la storia ne è testimone).

Oggi ci viene chiesto di stare tutti in casa, perché è giusto ed è l’unico modo per risolvere il problema. Ma dopotutto, anche la difesa della patria era considerata cosa buona e giusta, unico modo per risolvere il problema dell’invasore straniero.

Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale non c’erano giovani in lacrime strappati da casa per essere portati controvoglia al fronte. Quando fu dichiarato l’inizio del conflitto «folle festanti irrompevano nelle strade come fiumi che hanno rotto gli argini» (M. Banti, storico del ‘900). Plasmato da una cultura nazionalista che lo voleva fedele prima di tutto all’ideale della patria, il popolo rispose.

Il soggetto cambia, ma autorità e attori sociali restano immutati.

Siamo sicuri, ora come allora, di aver capito chi è il vero nemico?

I Coronavirus sono una vasta famiglia di virus noti per causare malattie che vanno dal comune raffreddore a malattie più gravi come la Sindrome respiratoria mediorientale (MERS) e la Sindrome respiratoria acuta grave (SARS). Sono virus RNA a filamento positivo, con aspetto simile a una corona al microscopio elettronico. La sottofamiglia Orthocoronavirinae della famiglia Coronaviridae è classificata in quattro generi di coronavirus (CoV): Alpha, Beta, Delta e Gammacoronavirus. Il genere del betacoronavirus è ulteriormente separato in cinque sottogeneri (tra i quali il Sarbecovirus). I Coronavirus sono stati identificati a metà degli anni ’60 e sono noti per infettare l’uomo ed alcuni animali (inclusi uccelli e mammiferi). Le cellule bersaglio primarie sono quelle epiteliali del tratto respiratorio e gastrointestinale.cAd oggi, sette Coronavirus hanno dimostrato di essere in grado di infettare l’uomo: Coronavirus umani comuni: HCoV-OC43 e HCoV-HKU1 (Betacoronavirus) e HCoV-229E e HCoV-NL63 (Alphacoronavirus); essi possono causare raffreddori comuni ma anche gravi infezioni del tratto respiratorio inferiore.
Un nuovo Coronavirus (nCoV) è un nuovo ceppo di coronavirus che non è stato precedentemente mai identificato nell’uomo. In particolare quello denominato SARS-CoV-2 (precedentemente 2019-nCoV), non è mai stato identificato prima di essere segnalato a Wuhan, Cina, a dicembre 2019.
Il virus che causa l’attuale epidemia di coronavirus è stato chiamato “Sindrome respiratoria acuta grave coronavirus 2″ (SARS-CoV-2). Lo ha comunicato l’International Committee on Taxonomy of Viruses (ICTV) che si occupa della designazione e della denominazione dei virus (ovvero specie, genere, famiglia, ecc.). A indicare il nome un gruppo di esperti appositamente incaricati di studiare il nuovo ceppo di coronavirus. Secondo questo pool di scienziati il nuovo coronavirus virus è fratello di quello che ha provocato la Sars (SARS-CoVs), da qui il nome scelto di SARS-CoV-2. Il nuovo Coronavirus, responsabile della malattia respiratoria ora denominata COVID-19, è strettamente correlato al SARS-CoV e si classifica geneticamente all’interno del sottogenere Betacoronavirus Sarbecovirus (testo edito dal Ministero della Salute, pubblicato il 25 febbraio 2020).

La pandemia si sviluppa di giorno in giorno. Ad Oggi i dati, destinati naturalmente ad aumentare, presentano nel I semestre 2020 a livello globale 30mila morti (che chiaramente sono in seguito aumentati) per e con Coronavirus. Probabilmente Il numero è sempre stato maggiore se consideriamo tutti i casi sommersi, ma sicuramente non di molto rispetto alla cifra indicata. I contagiati conosciuti e accertati sono 665mila, numero poco rappresentativo della realtà in quanto la prova del tampone viene fatta a persone che presentano sintomi, trascurando quindi di fatto tutti quegli individui asintomatici positivi, che poi sono la maggioranza. Riporto questi numeri non per alimentare la paura, quanto piuttosto perché necessari a comprendere l’inesattezza di tali misure, e le relative conseguenze che ne derivano. In primis, un rapporto sfasato tra morti e contagiati che fa apparire molto più alto di quello che è il tasso di mortalità del virus. Citando l’epidemiologo Leopoldo Salmaso, “I dati più affidabili vengono dalla Corea del Sud, che registra
tassi di letalità attorno al 6 per mille (1/12 dei nostri). Questo si spiega perché la Corea ha fatto test a tappeto fin dall’inizio (già più di 200.000) e conferma quanto abbiamo detto sopra, cioè che le nostre statistiche usano un denominatore (persone infettate) assai ridotto e selezionato, il che ingigantisce falsamente il rapporto morti/infettati cioè il tasso di letalità. La maggioranza degli esperti, ritiene che i casi asintomatici siano da 10 a 100 volte superiori. Perciò il tasso di letalità non sarebbe del 7,4% ( ora 9,2), ma almeno dieci volte inferiore”.


Sarebbe doveroso a questo punto fare un’ulteriore di
fferenziazione trai morti per Coronavirus e i morti con Coronavirus. Secondo il report dell’Istituto Superiore di Sanità (aggiornato 26 marzo 2020) in Italia solo il 2% dei deceduti ha avuto come unica causa di morte Il Coronavirus. Il restante 98% ha visto il Coronavirus come concausa aggravante di situazioni già fragili dovute ad
altre pat
ologie molto spesso correlate ad una età ormai avanzata.

Questo ridimensionamento del rapporto morti/infetti e morti per/con Coronavirus sarà rilevante quando andremo a leggere cosa dice la Costituzione a riguardo della legittimità di misure restrittive della libertà di movimento (garantita dall’art. 16).

Ma prima di addentrarmi nell’aspetto politico e giuridico, ci tengo ad affrontare il tema ancora sul piano medico, scientifico ed epistemico. Di fronte ad una malattia nuova, ma come per molte
faccende vecchie, la comunità scientifica non è unita. Molti (come me) direbbero per fortuna. Citando Popper, pilastro dell’epistemologia e teorico dei paradigmi scientifici, potremmo dire: “La
scienza non è un insieme di asserzioni certe, o stabilite una volta per tutte, e non è neppure un sistema che avanzi costantemente verso uno stato definitivo. La nostra scienza non è conoscenza (ep
istème): non può mai pretendere di aver raggiunto la verità, e neppure un
sostituto della verità, come la
probabilità”.


Nei dibattiti tra medici, infatti, non è unisono Il modo dl guardare a questa
situazione. Per semplificare allo stremo abbiamo ad un polo la visione apocalittica di Roberto Burioni, e all’altro polo figure come l’epidemiologo Leopoldo Salmaso, ma anche medici e scienziati come Stefano Montanari, Piero Mozzi, Andrea Del Buono che propongono letture altre del fenomeno. Tutti questi attori del mondo medico e scientifico, in virtù delle loro conoscenze, andrebbero collocati su una linea orizzontale in cui il peso delle loro parole rispetti il principio di parità, data la legittima visone differente del fenomeno Coronavirus. Appunto, lungo una linea con due poli alla pari altezza.

Nei fatti questa pari dignità non è rispettata, la scienza, gli scienziati e la competenza a loro riconosciuta vanno assumendo sempre più un ruolo politico di potere.

Se stiamo alla classica definizione di potere “quale capacità di determinare il comportamento altrui” (Norberto Bobbio, Teoria generale della politica). Ancora di più in periodi di Stato di eccezione come questo.

Essendo espressione di un potere politico legato alla sanità pubblica, mostrandosi ripetutamente nei programmi televisivi, queste figure assumono un ruolo politico ed in quanto tali vengono analizzati “poiché il possesso della forza [intesa come potere politico], corrompe inevitabilmente il libero giudizio della ragione(Immanuel Kant).

La prima cosa che si constata è che se sul piano epistemico le diverse interpretazioni e le corrispettive figure mediche dovrebbero essere sullo stesso piano, all’interno del palinsesto televisivo come in quello istituzionale presentano poteri estremamente sbilanciati.

E dove c’è potere c’è politica, un chiaro esempio di come anche all’interno della comunità scientifica sussistono dei rapporti di forza.

Lo si è visto in questi giorni con le azioni portate avanti dalla “Fondazione Patto Trasversale per la Scienza”. Tale autorevole associazione di cui e illustre membro il medico Burioni, ha sporto denuncia al medico Montanari, sostenitori di un’altra visione del fenomeno Coronavirus.

E a tutti i colori che hanno pubblicato le sue interviste e forse fin troppo facile, o forse no, vedere in queste azioni il rifiuto più netto ai principi della scienza e il ripetersi di modelli storici che credevamo, come l’inquisizione, conclusi. Una risposta lucida arriva dal giornalista Paolo Bernard, che non esita a descrivere il comportamento assunto dalla Fondazione come “una cordata democristiana ai tempi di Ciriaco De Mita”.

Non manca così di far notare su quanti medici dissidenti le istituzioni scientifiche abbiano nel corso della storia posto il loro veto, ora censura per poi, a distanza di anni, tornare sui loro passi.

Cita inoltre personaggi oltraggiati al loro tempo come Ignác Fülöp Semmelweis, Kary Mullis, Galileo Galilei. Viene ripresa poi una parte del pensiero di Richard Horton, attuale direttore del del Lancet, rimasto scandalizzato dai tentativi di una parte della comunità scientifica di mettere a tacere voci. Horton infatti scrisse (riferendosi ad un caso analogo legato a degli studi sull’AIDS):Sono voci che comunque meritano di essere ascoltate e l’assassinio ideologico che hanno subito rimarrà come un testamento imbarazzante delle tendenze reazionarie della scienza moderna” (The New York Review of Books).

Riflessione che si sposa alla perfezione con i fatti sopra descritti.

Ho chiarito così cosa intendevo per rapporti di forza (e quindi di potere e quindi politici) all’interno della comunità scientifica.

Inoltre, altrettanto chiaro che questi appelli ad una correttezza rispetto alla concezioni epistemiche della scienza non risultino così efficaci o interessanti in una situazione di panico collettivo come quella che stiamo vivendo. Ma restano comunque (se non ancora di più proprio ora) fondamentali.

Occorre quindi per rispettare questi principi e riequilibrare, per quanto possibile la discussione, farsi portavoce di quelle istanze dissidenti che mi limiterò a citare in quanto non competente, come purtroppo molti di voi nelle materie mediche.

In primis, come ho già detto, i numeri dell’epidemia e il relativo tasso di mortalità sono stati messe fortemente in discussione da epidemiologi come Salmaso. Un sostanziale accordo riguarda anche la condanna del panico suscitato in quanto “il fatto di star vivendo in un momento di tensione ci attiva una immunodepressione(Del Buono, immunopatologo).

Allo stesso modo vengono criticate le argomentazioni e gli strumenti su cui si è voluto riversare l’attenzione: parlo delle mascherine, del gel per le mani, dell’amuchina, ovvero dei cosiddetti “dispositivi di protezione individuale”. Bene, sono però molte le voci a sottolineare che esistono dispositivi di protezione individuale altri. Molti dei quali già presenti in noi o che comunque transitano in noi. Intendo ora alludere alla fondamentale importanza del sistema immunitario delle persone, che è il nostro vero difensore numero uno delle malattie e naturalmente anche tutto ciò che da esso dipende. In primis, il cibo.

A questo proposito cito un passaggio di un’intervista ad Andrea Del Buono per conto dell’Ordine dei Biologi: “Da dove viene l’attivazione immunologica, qual è l’organo immunologico per eccellenza? L’organo per eccellenza è la nostra pancia, il nostro sistema immune che sta nel primo tratto dell’intestino che è un vero e proprio organo immunologico. Qui si gioca il 70% della risposta immunitaria. […] Il fatto che noi non teniamo in equilibrio questi elementi e perché gli alimenti privi di batteri che nella dieta comune sono la maggioranza non riescono a riequilibrare l’eubiosi.

Quali sono allora i consigli che si possono dare? In primo luogo il consumo di alimenti fermentati, gli alimenti ricchi di microrganismi come lo yogurt, ma anche di più il kefir. […] Perché perdiamo l’equilibrio, facciamo degli errori come lo zucchero raffinato, il glutine, che per essere digeriti causano una distrazione immunologica che causa un immunodepressione. La prima condizione importante in situazioni come queste e di ingerire poco glutine e poca caseina (la proteina del latte). Un altro farmaco importantissimo e l’olio extravergine di oliva. Perché è importante l’olio? Perché i linfociti che ci servono per l’attivazione dell’immunità innata e adattiva richiedono un sacco di fosfolipidi. […] Mantenere l’immunità significa mantenere in equilibrio l’intestino. Riduciamo quindi gli alimenti raffinati, lo zucchero, il glutine [quindi la pasta e il pane] e la caseina [formaggi]”.

Tutte questioni più o meno trascurate, nonostante qualunque medico giudicherebbe centrale il ruolo che svolge il sistema immunitario delle persone in questa situazione. Non è un caso, infatti, che molti non si ammalino e che la maggioranza di chi si ammala guarisca senza alcuna complicazione.

Dipende forse dal caso?

Chiaramente no, non siamo tutti esposti allo stesso modo, ma tutti possiamo rinforzarci senza fare corsa agli acquisti di amuchina o disinfettanti. Conoscere altri modi per essere in salute è sempre un arricchimento, anche se ci costringe a mettere in discussione il ruolo che nelle nostre vite riveste il cibo (spesso scadente e marginalizzato), il posto in cui si vive l’aria che si respira.

Uno non per forza deve cambiare il suo modo di vivere, ma deve almeno avere la possibilità di una scelta anche solo tra continuare a impiastricciarsi di gel per le mani o iniziare a mangiare meglio. Ma almeno deve avere la libertà di sapere che esistono delle alternative.

Così, di fronte ad una grave confusione sulla letalità di questo virus e sulle diverse modalità utilizzate per monitorare il contagio, vediamo cambiare la gravità di questo.

Di regione in regione, quasi a rispettare le autonomie nate dalla riforma del titolo V della Costituzione.

La politica governativa ha risposto in crescendo all’emergenza fino a raggiungere la chiusura totale dell’Italia nei suoi confini della sanità, in ogni regione, dei cittadini nelle loro case e delle loro idee, possibilmente non oltre 200 metri dall’abitazione.

È inevitabile a questo punto fare riferimento alle parole di Foucault, che estrapoliamo dal capitolo La città appestata del suo capolavoro “Sorvegliare e punire” e che difficilmente potrebbero essere più appropriate nel descrivere quello che è il rapporto attuale tra malattia e politica: “Alla peste risponde l’ordine, la sua funzione di risolvere tutte le confusioni, quella della malattia che si trasmette quando i corpi si mescolano, quella del male che si moltiplica quando la paura e la morte cancellano gli interdetti. Esso prescrive a ciascuno il suo posto, a ciascuno il suo corpo, a ciascuno la sua malattia e la sua morte, a ciascuno il suo bene, per effetto di un potere onnipresente e onnisciente che si suddivide, lui stesso, in modo regolare e ininterrotto fino alla determinazione finale dell’individuo, di ciò che lo caratterizza, di ciò che gli appartiene, di ciò che gli accade. […]

La penetrazione, fin dentro e più sottili dettagli dell’esistenza, del REGOLAMENTO. […] e intermediario era una gerarchia completa, garante del funzionamento capillare del potere, non le maschere messe e tolte, ma all’assegnazione a ciascuno del suo “vero” nome, del suo “vero” posto, del suo “vero” corpo, della sua “vera” malattia. La peste come forma insieme reale e immaginaria, del disordine a come con relativo medico e politico la disciplina”.

Pausa di riflessione.

Ma sì, come è chiaro a tutti quello che stiamo vivendo non è la peste, dall’altra stiamo sperimentando “la penetrazione fin nei più sottili dettagli dell’esistenza del regolamento”.

Nel mondo un miliardo di persone è stato chiuso nelle loro case. “Ciascuno è stipato al suo posto e se si muove ne va della vita, contagio o punizione” (sempre Foucault).

Ma il potere in questo momento non è solo questo, si presenta in tante forme.

Questi che sto facendo notare sono aspetti coercitivi, grossolani e volgari, non di certo gli unici motivi per cui la gente si è chiusa nella propria casa.

No, il vero potere, come direbbe anche Foucault, non sta solo in queste azioni, ma si rivela in quel accondiscendenza che ha visto la popolazione italiana diffondere frasi come quella inizialmente menzionata, o nell’essersi trasformati tutti in attenti controllori del comportamento proprio e degli altri.

Questo “consente all’ego di molti di essere gratificato alla rabbia collettiva, di essere incanalata e di generare conflitto verso il basso e l’obbedienza verso l’alto”, come scrive su Doppiozero Antonio Vercellone.

I cellulari non hanno mancato di filmare i comportamenti irregolari dei concittadini, quasi che ogni persona che stringeva con orgoglio il proprio smartphone stesse prestando al potere un occhio laddove mancava una telecamera. Inutile citare il Panopticon di Bentham. Un totale assecondamento alle autorità che si manifesta attraverso l’autodisciplina (a tal punto ben riuscita da farci controllare anche tra di noi). E il fatto stesso che voi mentre leggete differenziate questo caso che stiamo vivendo perché ritenete che sia giusto ora obbedire alle autorità, è l’ennesima conferma che avete deciso di farvi portavoce di questo tipo di potere, di questo tipo di politica, giocata interamente sulle emozioni. Non siete diversi da quei fiumi di gente che si riversava con gioia per le strade della città allo scoppio della Grande Guerra, dopo aver ricevuto un di carattere nazionalistico.

State rispondendo allo stesso modo. Il soggetto cambia, ma autorità e attori sociali restano gli stessi.

Ma poi per cosa sarebbe giusto obbedire (e soprattutto credersi nel giusto ha obbedire)?

Perché l’epidemia genera morti? E quindi dovrei dedurre che per ogni emergenza sanitaria vi chiuderesti in casa come state facendo ora?

Bene, allora preparatevi pure a non uscirci mai più. Il virus è vero che si diffonde da persona a persona, ma se guardiamo con occhio attento questo fenomeno, vedremo che non si differenzia molto da quello ad esempio dei morti per inquinamento dell’aria.

Anche l’inquinamento c’è perché ci spostiamo, ci muoviamo, vogliamo far viaggiare le merci da ogni dove e la mia come, la tua macchina e come i camion delle nostre merci, scaricano dalla marmitta un cocktail di virus (o polveri sottili, che siano), che infettano e uccidono 400.000 persone (non 10.000) ogni anno in Europa. Ora mi spiegate che differenza c’è tra un virus che ci trasmettiamo se ci muoviamo e un inquinamento che c’è solo se ci muoviamo? Perché l’unica differenza che io vedo è che nei risultati l’inquinamento è enormemente più dannoso del virus in discussione e si verifica tutti gli anni, perché l’unica differenza che io vedo è che nei risultati l’inquinamento è enormemente più dannoso del virus in discussione e si verifica tutti gli anni.

Per di più causato da un’esplicita volontà umana. Ma allora perché la risposta istituzionale e privata è uguale e contraria alle loro gravità? Perché non ho mai visto accendere una candela per quei 400.000 morti l’anno in Europa a causa delle auto e dei camion merci che facciamo muovere noi? Perché nessuno soffre per chi muove di miseria e di povertà, in un mondo in cui di ricchezza se ridistribuita potrebbe essercene per tutti? Perché ora che ci dichiariamo cosmopoliti non soffriamo per le 2.000 morti AL GIORNO per malnutrizione che si verificano nei paesi del terzo mondo, poveri non di natura, ma resi tali da debiti capestro?

Perché ci emozioniamo solo per alcune cose?

La politica fatta sulle emozioni è una vecchia storia ben sviscerata dall’intellettuale Lippmann nel volume Public Opinion. La tesi consiste in sintesi in una concezione del cittadino non come un uomo razionale (quello elogiato dai primi economisti), ma piuttosto come un personaggio vittima delle sue emozioni e dei suoi pregiudizi, ora in grado di scegliere per lui. I cittadini, essendo immersi in una realtà troppo complessa da poter essere compresa, sono costretti a crearsi uno pseudo ambiente in cui tutto sia il più possibilmente riconoscibile (per difendersi dalla complessità del reale). Questo lo si riesce a fare attraverso il modello dello stereotipo, ovvero una forma entro cui racchiudere tutto ciò che ci appare simile. L’individuo immerso nella complessità “si trova costretto a riconoscere invece che conoscere”. Non può avere tempo di sviscerare le questioni sociali e politiche della sua nazione, né tantomeno quelle del mondo intero. Leggerà quei due articoli ogni tanto sul giornale, e così costruirà le sue categorie attraverso cui interpretare il mondo.

Lippmann aveva capito che per far sì che i cittadini agissero in un certo modo non fosse un buon metodo quello di convincerli in modo razionale. Era invece molto più semplice ed efficace sfruttare la psicologia sociale attraverso la manipolazione delle emozioni.

Il cittadino era così trasformato in un personaggio suscettibile, governabile non con la ragione (in quanto gli viene in un certo senso negata), ma attraverso la paura, l’odio, il sentimento patriottico, la sensazione di pericolo. E per far questo il potere politico avrebbe avuto bisogno di simboli. La politica, dunque andava fatta sulle emotività dei cittadini ed essi andavano convinti non su un piano logico razionale, ma manovrando i loro sentimenti.

Abbiamo prova in questi giorni di come, ad un secolo di distanza dalle tesi dell’autore, la politica nelle democrazie moderne si sviluppi ancora nel medesimo modo. La paura, il panico sono stati gli strumenti con i quali si è riuscita a ottenere l’ubbidienza, e si è riusciti a farlo proprio perché il cittadino è un individuo suscettibile. Al contrario, se non fosse stato così mi sarei aspettato più sviluppi razionali come quello che stiamo provando a fare qui e un po meno #iorestoacasa. Non cito a caso l’#iorestoacasa, ma lo faccio perché è molto esemplificativo di ciò che Lippmann intendeva con il concetto di simbolo. Questo è infatti qualcosa di semplice, indicativo, che tutti sanno riconoscere e tutti possono condividere; e così facendo, dare il segno della propria ubbidienza. All’epoca del New Deal, a cui allude anche Lippmann, il simbolo più utilizzato era un’aquila blu, che contrassegnava i negozi in cui andare a comprare (ovvero i negozi delle corporation che erano scesi a patto con lo Stato nella collaborazione economica).

E tutti andarono nei negozi con l’effige dell’aquila blu, perché così gli era stato detto di fare, erano stati convinti. L’aquila poi, simbolo semplice, che tutti capivano e che – si sa – non può non piacere, rese soddisfacente acquistare in quei negozi. E infatti tutti ci andarono, il soggetto cambia, ma autorità e attori sociali restano gli stessi. Allora come oggi, molto spesso non siamo in grado di controllare in modo razionale la nostra suscettibilità agli eventi. Altrimenti non sarebbe chiaro come mai ci si spaventi così tanto per un’epidemia che crea un numero di morti non così distante da quello delle normali influenze stagionali o – se vogliamo paragonarlo alle morti per cause sanitarie – da quello delle infezioni ospedaliere (50.000 all’anno in Italia), e dalla farmacoresistenza (30.000 decessi a causa dell’abuso dei farmaci negli ospedali). Peraltro, tutti e due esempi con una gravità in termine di vite umane superiore a quella del virus (perché ricordiamoci, avvengono ogni singolo anno).

Naturalmente non sono stupido, e se vogliamo esaminare solo questa situazione nello specifico (con i limiti che ne derivano), comprendo anch’io l’emergenza sanitaria fattasi manifesta dalla scarsità dei posti letto nelle terapie intensive. Purtroppo, come sappiamo, in alcuni casi il virus può portare a gravi polmoniti che necessitano di strumentazioni complesse per il trattamento del malato. E così la contemporaneità dei casi riempie quel preciso reparto ospedaliero di terapia intensiva, già di suo molto pieno. Un ospedale infatti è considerato efficiente quando è occupato per 80%, ed è su questa percentuale che si sono andati ad aggiungere i casi più gravi di Coronavirus. Gli ospedali non sono stati riempiti a causa del virus, ma questo – in alcune città – è andato a saturare solo una piccola parte della capacità ospedaliera, ovvero il restante 20% del reparto di terapia intensiva. E certo, che è drammatico. Ma comunque non regge il passo a contraddizioni come quelle prima notate. Ciò nonostante anche dagli ospedali è possibile far partire un’importante riflessione.

Come mai in uno Stato in cui la sanità pubblica è garantita e la sua qualità è vanto internazionale, la si trova totalmente impreparata ad una tale situazione? Vorrei dire anch’io perché questa è una crisi gravissima, impossibile da contenere, ma non è così. La sanità pubblica, vecchio cavallo di battaglia in stile anni 70 (insomma baffoni e pantaloni a zampa di elefante), espressione più conclamata di un modello welfaristico di Stato, a partire dalla crisi petrolifera del ‘74 e con il cambiamento di paradigma da quello keynesiano a quello neoliberale, ha iniziato il suo declino. Dagli anni ‘80 e poi nei ‘90 , le privatizzazioni hanno preso posto in tutto ciò in cui lo Stato non pareva più interessato. I tagli alla sanità pubblica hanno portato a una drastica riduzione anche dei posti letto e quindi a una maggiore insolvenza dei bisogni sanitari nazionali.

Oltre a lavorare città del privato, a spingere e perpetrare questo impoverimento è stata la politica dell’Unione Europea. Questa istituzione inizia a radicarsi proprio durante la svolta verso il paradigma neoliberale, che in parole povere considera il mercato capitalista in grado di elargire nel migliore dei modi possibilim i beni che la gente necessita. In ambito politico questo vuol dire una sempre maggiore concessione di spazi di potere (quale ad esempio la sanità) lasciati alle regole di mercato. Quindi incentivi allo sviluppo di cliniche private (che tutti noi, in parte, paghiamo) e tagli sequenziali e cumulativi al welfare state (sanità compresa).

Abbiamo quindi capito chi è il vero nemico?

Il sistema sanitario non è un ente astratto e metafisico, ma è un soggetto reale le cui caratteristiche o dimensioni dipendono da decisioni che sono gli uomini a prendere. La sua incapacità ad assolvere a questa situazione non è una questione di fato, ma di scelte.

E se si è deciso che è più importante fomentare la smania di ricchezza dei partecipanti al mercato capitalista, invece che tutelare (non solo per questa situazione, ma sempre) la sicurezza pubblica, allora bisognerebbe forse tornare a riflettere in primis su queste contraddizioni.

Siamo disposti a lamentarci solo quando veniamo coinvolti tutti, di qualunque estrazione sociale, in un’emergenza o capiremo finalmente che il modello di sviluppo capitalista non finirà mai di produrre queste contraddizioni? Di drammi ad esse legate ce ne sono tutti i giorni e non vorrei che questa situazione venisse sfruttata per parlarne ancora di meno. Per chi fosse ancora illuso da qualche sdolcinata e mielosa visione positiva del capitalismo, invito alla visione dei film girati da Ken Loach.

Per riprendere il concetto di simbolo, anche in campo medico abbiamo visto crearsene uno, quello del medico eroe. Il medico che si applica senza tregua nella sua professione, e per questo motivo decantato. Con questo non intendo assolutamente sminuirlo, ma per quanto possibile, dargli invece una mano. I medici non sono eroi, i medici si trovano piuttosto in una condizioni di minorità di fronte a questo fenomeno in quanto anche loro hanno subito gli stessi tagli alla sanità di cui prima parlavamo. I medici non dovrebbero essere così pochi e il loro sfruttamento scandito dal coro “eroi” non penso faccia comodo nemmeno a loro. Ma intanto, siccome sono eroi (ed eroe è una parola ad alta legittimità per il popolo), li sfruttiamo il più possibile e finita l’emergenza non è che avremo poi tutto questo bisogno di assumerne altri.

È chiaro che questa situazione, come tante altre che abbiamo citato, porta del dolore ma sicuramente si sarebbe potuto agire in altri modi, come ad esempio sta avvenendo in Svezia.

La situazione è grave ma non allarmante, dichiara Anders Tegnell, l’epidemiologo dell’agenzia svedese per la sanità pubblica le cui stime sono alla base della decisione del Governo di introdurre pochissime restrizioni, affidandosi per il resto alla razionalità e a senso di responsabilità individuale. Le autorità hanno sconsigliato (non proibito) gli spostamenti (sia all’estero che sul territorio nazionale) e i contatti ravvicinati con gli anziani (il divieto di recarsi in visita alle case di riposo è stato introdotto solo a livello locale)” (da un articolo di Monica Quirico).

Questo era un esempio. Un’altra azione politica più strutturale sarebbe stata quella di evitare i tagli alla sanità che si sono susseguiti, applicare delle vere politiche redistributive della ricchezza in grado di migliorare la vita e quindi la salute degli svantaggiati. Difendere sì le figure più deboli, come gli anziani o le persone con patologie attraverso servizi domiciliari, e allo stesso tempo istruire verso una maggiore consapevolezza della malattia e dei diversi sistemi di protezione (interni ed esterni) che si sarebbero potuti utilizzare per difendersi. Fidatevi, che se ora gli Stati sono capaci di stampare miliardi di moneta, avrebbero potuto anche affrontare l’emergenza in questo modo.

Ma non è questo il punto su cui mi interessa soffermarmi. Dopotutto, come riferisce un articolo di Internazionale, si è stimato che la riduzione delle polveri sottili causata dal fermo generale, avrebbe prevenuto 50.000 morti premature per inquinamento, un numero superiore di quelle causate da Coronavirus. Paradossale no?

Siamo quindi sicuri di aver capito chi è il vero nemico?

Sembra di no, perché la televisione, i media, in particolare la RAI, ma anche le altre reti hanno propinato ogni giorno bollettini di guerra degni dei più raffinati racconti distopici. Dopotutto, se mi fanno vedere che gli altri hanno paura perché non dovrei averlo anch’io? (vi sto convincendo che la vera politica si fa sulle emozioni?). Insomma, che “la paura sia un capitale per i mass media” ce lo ricorda Zygmunt Bauman e che la televisione sia essa stessa potere lo sappiamo chiaramente da Pasolini. E anche in questo caso la RAI fa da esempio perfetto, in quanto per sua natura giuridica posta in essere al solo scopo di convertire in notizie ciò che è deciso essere tale dalle forze di governo. Così facendo siamo entrati anche noi a tutti gli effetti nella retorica del “siamo in guerra”. Questo simbolo pare il nuovo cavallo di battaglia della comunicazione di massa.

Lo storico Barbero, riguardo all’uso strumentale che è stato fatto della parola guerra, si è espresso così: “La guerra è anche il momento in cui lo Stato moderno rivela il suo enorme potere nei confronti dei cittadini, è in guerra che lo Stato diventa veramente il leviatano di Hobbes in guerra lo Stato può dire ai cittadini sospendiamo tutte le garanzie, sospendiamo tutti i diritti. […] La guerra è quel momento in cui si scopre che la libertà di informazione, che il diritto di cronaca, di dovere dei giornalisti di dare le notizie vale quando non ci sono problemi, ma quando ci sono problemi grossi, come la guerra, allora è il governo che decide cosa si pubblica, cosa la gente ha diritto di sapere”.

In una frase, stato di eccezione. E questa retorica, il sovrapporre l’emergenza attuale al fenomeno della guerra, fa parte dell’ossatura ideologica necessaria a portare 60 milioni di persone a comportarsi nel modo in cui gli viene detto.

I discorsi politici, le parole contano perché danno forma ai problemi o rientrano alla percezione delle persone, costruiscono le cornici di senso entro cui ci muoviamo” (Stefania Ravazzi, docente di Analisi delle Politiche Pubbliche).

In questa situazione di apparente emergenza vengono pertanto sospesi (secondo la classica definizione di stato di eccezione), alcuni dei diritti e delle libertà del cittadino. Una per tutte la libertà di movimento, garantita dall’art. 16 della Costituzione. Questo recita: “Ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale, salvo le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi di sanità o di sicurezza […]”.

L’articolo prevede infatti come riserva di legge (rinforzata per contenuto) la sanità e la sicurezza.

Ora, come veniva sottolineato in un articolo di Francesco Pallante su Il manifesto “non conoscendo le reali dimensioni dell’emergenza [riferendosi al discorso di cui abbiamo già parlato tra numero reale di infetti e numero campionato, tra morti per o da Coronavirus, la diversa mortalità tra regioni], come possiamo valutare se le misure siano o meno proporzionate alla situazione? E ammesso e concesso che siano misure appropriate, come possiamo valutare quando sarà venuto il momento prima di allentarle e poi di farle venir meno?”.

Nelle situazioni di crisi è richiesta a una comunità particolare capacità di unità e coesione. Si ritiene doveroso accantonare conflitti e divergenze per creare una sintesi con minore difficoltà che in un’epoca normale, cioè rinunciando con maggiore disponibilità a tenere il punto della posizione di principio. (…) È per tale ragione che i periodi di crisi sono pericolosi per la democrazia: in essa trova più facilmente presa sulla pubblica opinione la richiesta di coesione intorno a chi esercita il potere in quel momento, così come più agevole farà apparire come giustificato il ricorso a poteri eccezionali a misure estreme [vedi Orban]. Da ciò non può ovviamente derivare altro che un maggiore conformismo. Per tali ragioni nei periodi di crisi è importante mantenere vivo lo spirito critico, la capacità di dire con pacata fermezza ciò che non si ritiene accettabile, di quanto è abbracciato acriticamente nel senso comune” (Nicolò Ferraris, Responsabilità sociale e diritto al dissenso).

Con questa citazione si apre invece un articolo di Fabrizio Filice e Giulia Marzia Locati (entrambi magistrati) in cui vengono analizzati criticamente i decreti emanati per questa emergenza dal Governo. Applicando una sorta di controllo di costituzionalità in fasce, mettono in luce alcuni aspetti importanti: “Una prima criticità deriverebbe dal fatto che l’estensione all’intero territorio nazionale non sarebbe stata realizzata in sede di conversione del Decreto Legge né attraverso un’analoga fonte primaria, con la conseguenza che le misure limitative della libertà di circolazione adottate con i successivi DCPM per l’intero territorio nazionale non avrebbero alcun fondamento legislativo, con conseguente violazione della riserva di legge di cui all’art. 16 della Costituzione […] Inoltre, aver previsto una clausola così ampia potrebbe determinare, per le decisioni adottate ai sensi dell’art. 2, possibili profili di incostituzionalità dal punto di vista dell’urgenza. […]

È in sostanza legittimo chiedersi: fino a dove si intacca unicamente la libertà di circolazione e dove invece si intacca anche quella personale? Misure così limitative della prima che di fatto incidono anche sulla seconda fino a che punto sono legittime e sono soggette solamente alla disciplina, e ai limiti, di cui all’art. 16 Cost. e non anche di cui all’art.13 Cost.? […] Di fatto, se non si ha un animale di affezione e se si è in più di uno nel nucleo familiare, ci sarà qualcuno costretto a rimanere presso la propria abitazione senza poter mai uscire. […] Riteniamo che sia proporzionato alla gravità della situazione (dove ricordiamo che uno dei dati certi e che, mantenendo le distanze di sicurezza, il virus non viene trasmesso), vietare qualsiasi attività sportiva all’aria aperta, anche se svolte in solitudine, quando è scientificamente dimostrato che la stessa fa bene al sistema immunitario? È utile fare alcuni esempi paradossali che però danno l’idea di quello che si vuol sostenere: se fossimo obbligati a rimanere sempre tutti in casa, nessuna malattia si diffonderebbe mai e per i medici sarebbe la scelta migliore; se ci fosse un rigoroso coprifuoco notturno, con tutta probabilità si consumerebbero meno reati e per le forze dell’ordine sarebbe un grande aiuto. […] Non ci può venir chiesto di rispettare la legge perché questa è conforme a delle indicazioni di tecnici, di medici, di scienziati che giustamente hanno le loro visioni di cosa sia meglio per il loro specifico settore. Ma il compito della politica è ascoltare la comunità scientifica e poi prendere le proprie decisioni sulla base di numerosi fattori diversi”.

L’impossibilità di ricevere risposte chiare a questi interrogativi stimola inevitabilmente riflessioni critiche riguardo a quello che sta accadendo. Ma sicuramente non aiuta la reputazione di un potere politico che nemmeno nelle situazioni che decide artificialmente (a discapito di molte altre) essere gravi, riesce ad essere chiaro.

Sembra ancora una volta costringere la cittadinanza in una situazione in cui “molti non sono in grado di sapere, molti credono di sapere e non sanno” (Bobbio).

Ed è allora proprio per questo motivo che occorre rispondere ad una logica di questo tipo, essere in grado di prendere l’iniziativa, di cercare, di ragionare, anche di immaginare per poi eventualmente confutare. Ma il peccato più grande che si possa fare alla nostra intelligenza e non avere il coraggio o la voglia di usarla (parafrasando Kant).

Se a livello interno dell’epidemia non posso quindi raggiungere delle conclusioni definitive, occorre forse allargare lo sguardo a una visione più generale e globale dei fenomeni umani. Non siamo ancora in grado di sviscerare fino in fondo la pandemia da Coronavirus, ma possiamo fare delle similitudini, delle ipotesi, delle teorie, porci delle domande legittime.

Non trovo ad esempio risposta dalle istituzioni, se mi chiedo perché piccole emergenze vengono trattate come grandi, e grandi emergenze, vengono totalmente trascurate. Perché, se come ora sembra essere, la vita umana è considerata il valore più alto, le altre emergenze sociali e sanitarie del mondo non vengono appositamente affrontate?

L’unico potere che riterrei legittimo, dovrebbe essere un potere coerente. Che prima di costringere intere popolazioni a autoresludersi in casa per un’emergenza di questo tipo, affrontasse innanzitutto i problemi sociali che affliggono ogni giorno milioni se non miliardi di persone. Intendo, quindi non è un’emergenza, ma la vita che facciamo tutti i giorni. Parlo delle enormi e ancora crescenti disuguaglianze che causano 2,000 morti per malnutrizione ogni giorno, del massacro del popolo dei migranti, delle relative condizioni di vita ai margini dell’orrore, dello sfruttamento manifesto dei più deboli, della guerra tra i poveri per spartirsi le briciole del mondo.

Tutte queste non sono situazioni a sé stanti. Dove ci sono disuguaglianze non c’è solo la povertà, ma anche l’immensa ricchezza. L’unico potere che riterrei legittimo agirebbe in primis proprio su questa punta della piramide sociale, come una forza riequilibratrice che distribuirebbe l’immensa ricchezza concentrata, all’immensa maggioranza del mondo. E questo saprebbe rispondere anche ad emergenze come questa, perché la miseria e il terreno in cui meglio prolificano le malattie;

rispondendo all’emergenza delle disuguaglianze, si darebbe una risposta anche agli effetti delle epidemie. Ci si potrebbe nutrire meglio e così facendo rinforzeremo il nostro sistema immunitario. La ricchezza è una cosa ferma, non c’entra niente con misure come il PIL che guardano agli spostamenti economici. Il mondo ha tutto il necessario per tutti. L’unico potere che riterrei legittimo agirebbe così. Ma questo potere non esiste.

Quello che vediamo è un mondo in cui gli oppressi non si possono nemmeno più contare, in cui si muore di fame, di miseria, di disoccupazione senza che si muova un dito. E quando non si muore, si vive in una condizione che trascende verso il basso la dignità umana. Non so scrivere del dramma di queste realtà, ma posso citare il film Parasite per farvi meglio comprendere a cosa alludo. Ogni principio etico che concepiva tutte le persone libere e uguali continua ad essere soffocato nel sangue degli innocenti, nel povero costretto ad ammazzare il povero per prendere a lui il pane.

Ma come si fa ad accettare di vivere in un mondo così? Come si fa a sentire dalla gente che la crisi più grande del secolo sarebbe questo Coronavirus? Come si fa ad essere così ipocriti senza sentirsi la propria coscienza urlare contro? Come si fa a prestare la propria ubbidienza ad un potere che non ha alcuna intenzione di agire su questi temi sociali, ma piuttosto sfrutta questa situazione per mettergli ancora più da parte?

Le contraddizioni ci sono e sono innegabili. E un’altra prova è portata dalle 800 milioni di persone che soffrono la fame nel mondo, quello stesso mondo in cui un terzo del cibo prodotto viene sprecato (dati Coldiretti). Sappiamo che molti dei paesi ex coloniali vivono in una condizione di sfruttamento e povertà indotto dalle forme di neocolonialismo, che non passano più dal dominio diretto del territorio, ma attraverso le nuove forme del capitale e della finanza internazionale;

ovvero strategie economiche che garantiscono una presenza indiretta attraverso lo sfruttamento economico non esplicito. Sappiamo che i popoli che ci vivono vendono la loro vita per una somma umiliante, dovuta al basso valore della loro moneta, che si è voluto stabilire tale perché fosse garanzia di un indiscriminato sfruttamento delle loro risorse. La lista di altre vere emergenze quotidiane sarebbe infinita. E tutto questo, tutto questo riguarda la vita di milioni, miliardi di persone.

Dal mio punto di vista, occorre sempre avere una chiara consapevolezza riguardo alle diverse gravità dei problemi, per poi affrontarli in ordine di grandezza. So che questi argomenti sembrano fuorvianti rispetto alla critica del fenomeno Coronavirus, ma tale fenomeno non può essere studiato al di fuori del sistema in cui si presenta. Se isoliamo un solo fattore rischiamo di perdere la visuale biologica, generale sociale che lo avvolge, lo permea. È nel contesto, che il fenomeno prende la sua forma. Non nel vuoto, ma all’interno di un preciso sistema, di cui ho cercato di descrivere alcune facce. I nostri stessi discorsi, il modo in cui li formuliamo, determinano in sé il fenomeno.

Come scrivevo prima, “i discorsi politici, le parole, contano, perché danno forma ai problemi, orientano la percezione delle persone, costruiscono le cornici di senso entro cui ci muoviamo”.

Io so, che c’è una chiara volontà politica a far ricadere tutta l’attenzione su questo problema.

Io so, che il modo in cui il problema ci viene presentato è già per definizione un’esercitazione di potere.

Io so, che ogni giorno ci sono nel nostro paese e nel mondo emergenze molto più grandi dell’attuale Coronavirus.

Io so, che questi problemi riguardano molte più persone e durano da molto più tempo.

Io so, che l’opinione pubblica nei confronti di altre crisi non saprebbe mai reagire nel modo in cui gli è stato detto di fare ora.

Io so, che nessuno di noi avrebbe mai fatto per sua volontàm davanti alle ingiustizie del mondo, i sacrifici di questi giorni.

Io so, che l’attuale modalità di uso dei droni e dispositivi tecnologici per la sorveglianza ha la funzione di renderli più accettabili quando tutto ciò sarà finito.

Io so, che quelli che ci comandano e oggi sembrano i paladini della vita umana, finita questa emergenza non faranno nulla per risolvere tutte le altre emergenze finora citate.

Io so, che i costi di questa crisi non verranno risolti con tasse patrimoniali, ma saranno fatti scivolare sulle classi più deboli.

Io so, che temi come l’inquinamento non possono essere toccati perché hanno alle loro spalle un immenso potere economico.

Io so, che i virus come questi sono il risultato di un sempre più deliberato sfruttamento delle zone naturali selvagge, che una volta disboscate e biologicamente squilibrate, aiutano il processo di spillover delle malattie.

Io so, che la medicina naturale che pone molta attenzione sull’alimentazione è messa appositamente da parte perché un suo sviluppo ruberebbe spazi di mercato alle aziende farmaceutiche.

Io so, che quei 400.000 morti per inquinamento continueranno ad essere trascurati perché sono strutturali al nostro sistema economico.

Io so, che i problemi sociali che nascono da interessi economici non verranno in alcun modo affrontati.

Io so, che questo non era l’unico modo per affrontare l’epidemia.

Io so, che i popoli la cui vita e dignità sono state decise dal valore della loro moneta, resteranno gli schiavi del mondo.

Io so, che la crisi ambientale, fintanto che colpirà duro solo gli ultimi, non verrà affrontata.

Io so che tutto ciò avviene perché è reso giusto per i sudditi ciò che è utile per i detentori del potere (Trasimaco, Platone).

Io so, e ne ho le prove, che ad affrontare e a commuoversi solo per alcuni tipi di emergenza e altri no, c’è una chiara volontà politica.

E mai, mai mi adeguerò a questa ipocrisia.

 

*Francesco Schellino, ragazzo di 20 anni che vive in Valle Stura (nell’appennino ligure), non è sui social network e il suo sogno è ristrutturarsi una baita. Ha scritto queste sue riflessioni durante i giorni caldi dell’emergenza sanitaria. Saggio pubblicato nel numero 149 della rivista Ellin Selae (aprile 2021) e nell’appendice di “Silenti ed eretici” di Franco Del Moro (prima edizione marzo 2021).

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